Da alcuni anni a questa parte, in Italia si è acceso il dibattito sulla terza missione dell’Università la quale, in aggiunta alle missioni tradizionali (didattica e ricerca), è chiamata a svolgere un ruolo attivo nello sviluppo economico e sociale.

In realtà una svolta in questa direzione non sarebbe un fatto nuovo in assoluto. Gli Stati Uniti, già negli anni ’20, avevano cominciato a interrogarsi sul ruolo della ricerca accademica. Il Segretario al Commercio USA, Herbert Hoover (che sarà eletto Presidente degli Stati Uniti nel 1928), sosteneva che il mercato americano fosse debole rispetto alle economie dell’epoca di alcuni Paesi europei, poiché il libero mercato non era stato in grado di produrre un Sistema Nazionale di Ricerca e Innovazione Tecnologica. In presenza di fallimento del mercato, Hoover proponeva l’intervento del governo federale. Ma, in un Paese che tradizionalmente non interveniva nei fatti economici e nell’istruzione, quel tipo di proposta non poteva che restare lettera morta. Tuttavia, a seguito della drammatica crisi del ’29 ed al conseguente “Big Deal” di Roosevelt, cade il tabù dell’intervento del Governo federale nell’economia ed il tema del ruolo della scienza nella società torna ad essere di grande attualità. E quando scoppia la seconda guerra mondiale, che secondo gli osservatori dell’epoca prima o poi avrebbe coinvolto anche gli USA, il Governo federale, al fine di attrezzarsi al meglio, ritiene fondamentale il coinvolgimento del mondo dell’università e della ricerca scientifica. Sempre più scienziati iniziano a frequentare uomini politici, come pure militari e imprenditori.

Nell’agosto del 1939 Roosevelt riceve una lettera a firma di Albert Einstein (scritta con il fisico Szilárd) che lo avverte che i tedeschi probabilmente stanno cercando di realizzare armi atomiche e lo invita a fare scorte di uranio e ad accelerare la ricerca di Enrico Fermi. Prende così forma il “Manhattan Project” per la ricerca USA sull’uranio. Il presidente Roosevelt affida a un matematico e ingegnere del MIT di Boston, Vannevar Bush,  il compito di rendere efficaci e fluidi i rapporti tra Stato, mondo scientifico e imprese. Bush mostra di possedere spiccate attitudini organizzative, tipiche di un odierno manager della ricerca.  Egli diventa il coordinatore del “Manhattan Project” che, in gran segreto (nemmeno Truman, vice di Roosevelt, era informato) mobilitando 5.000 tra scienziati ed ingegneri, più un numero non noto di militari e circa mezzo milione di tecnici ed operai dell’industria, realizza, in pochi anni, la bomba atomica.

Ma Bush in quegli anni pensa anche a quello che dovrà essere il ruolo della ricerca scientifica a guerra finita. Roosevelt gli affida il il compito di analizzare “come” il Governo federale avrebbe dovuto aiutare lo sviluppo della scienza dopo la conclusione della guerra, senza, quindi, mettere ancora in discussione “se” vi dovesse essere l’intervento dello Stato nell’economia e nel finanziamento della ricerca.

Lo storico rapporto di Bush “Science: The Endless Fontier” è pubblicato il 25 luglio 1945 sotto la presidenza Truman poiché Franklin Roosevelt era morto il 12 aprile 1945.[1] In esso Bush sostiene che il sistema nazionale della ricerca fondato sulla scienza di base debba essere finanziato da fondi pubblici e coordinato da un’unica agenzia federale la quale deve essere diretta in piena libertà dagli scienziati (integrale autonomia della scienza) e deve allocare i fondi pubblici ai gruppi di assoluta eccellenza sulla base del merito.

Truman (subentrato a Roosevelt) non è d’accordo con Bush il quale, allora, decide di rivolgersi al Congresso e, pertanto, invita un senatore a proporre una legge basata sul suo rapporto. Ne scaturisce un dibattito di enormi proporzioni che coinvolge non solo  il Congresso e il Governo, ma tutta la comunità scientifica e l’opinione pubblica: è la prima volta al mondo che il dibattito sul rapporto scienza-società assume queste proporzioni.

Nel 1947 il Congresso approva la legge sulla politica federale a sostegno della ricerca e crea le premesse per la nascita dell’Agenzia che dovrà gestirla: la National Science Foundation (NSF). Ma l’NSF, così come concepita da Bush, non nasce poiché Truman pone il veto alla legge. Il Presidente nomina un nuovo Comitato sul tema della ricerca che produce un nuovo rapporto che, tra le altre cose, propone un aumento della spesa in R&S sino all’1% del PIL. Truman fa suo il rapporto. Infatti, egli non era affatto contrario al finanziamento pubblico alla ricerca, ma riteneva che se la scienza assume un valore strategico per la società, l’ultima parola spettasse alla politica. La National Science Foundation nascerà il 10 maggio 1950. Naturalmente, il consiglio e il presidente dell’Agenzia sono nominati dal Presidente degli USA.

Negli anni che seguono il Sistema d’Innovazione degli Stati Uniti d’America cambia aspetto, diventando grande, diversificato e con la presenza attiva del governo federale. Nel 1930, gli Stati Uniti d’America spendevano 140 milioni di dollari in R&S. Nel 1940 la spesa era più che raddoppiata: 309 milioni di dollari. Dopo la conclusione della guerra gli Usa investono in scienza e tecnologia una quantità di risorse cento volte maggiore: nel 1953 la spesa in R&S ammonta all’equivalente di 30 miliardi dollari odierni.

Le imprese americane iniziano a effettuare investimenti in nuove tecnologie, investimenti che tuttavia ben presto risultano ostacolati dall’emergere di un gap tra domanda e offerta di capitali. Il governo reagisce prontamente con un Piano a sostegno del mercato dei capitali che detassa gli investimenti e introduce una marcata deregulation, mobilitando così il venture capitals. La disponibilità di capitale di rischio favorisce gli investimenti nell’avvio e nella crescita di imprese ad alto potenziale di sviluppo e la nascita di quei parchi scientifici e tecnologici e di incubatori di imprese che negli anni successivi diventeranno il cuore dell’economia della conoscenza negli USA.

Nel 1980 gli Stati Uniti compiono un ulteriore importante passo importante nella direzione del rafforzamento del legame tra ricerca e sviluppo tecnologico. Con il Bayh-Dole Act del 12 dicembre 1980 Università e enti pubblici di ricerca hanno i diritti di proprietà sui risultati delle proprie ricerche finanziate con fondi pubblici e possono sfruttare tali diritti ai fini commerciali. Il Bayh-Dole Act ha dato un notevole impulso alla cooperazione tra università e industria e ha determinato la creazione di numerosi consorzi misti università-imprese per lo sfruttamento commerciale delle innovazioni.

Da tutto ciò si deduce che da tempo si è sviluppata la convinzione che l’Università debba trasformarsi per assumere un ruolo più imprenditoriale. Ma non tutti interpretano allo stesso modo questa trasformazione. Quali dovrebbero essere i confini del campo d’azione dell’Università nel nuovo ruolo? In particolare, i ricercatori possono continuare a fare ricerca per pura curiosità o devono principalmente collegarsi ad un contesto industriale?

Il punto da approfondire è se, per svolgere efficacemente la terza missione, l’Università debba concentrarsi essenzialmente sulla ricerca industriale, suscettibile di sviluppi applicativi, a scapito della ricerca curiosity driven finalizzata all’aumento delle conoscenze, esplorando ciò che è sconosciuto, ma senza diretti fini applicativi. Si sottolinea che la conoscenza così prodotta, avendo le caratteristiche di “bene economico pubblico”, è realizzata quasi esclusivamente presso le Università e gli enti di ricerca pubblici. Questo tipo di investimento, infatti, sarebbe troppo rischioso e richiederebbe tempi di rientro lunghissimi per le industrie che, pertanto, sono più interessate alla ricerca applicata (la quale, comunque, spesso discende dalla ricerca di base). Pertanto, è opportuno che le università continuino a investire soprattutto in ricerca di base. L’esempio americano, in effetti, ne è una prova. Una lettura attenta del Rapporto “Science: The Endless Frontier” mette in evidenza che Bush propone il sostegno pubblico alla ricerca di base. Analogamente, Henry Etzkowitz, il teorico della Tripla Elica Università-Industria-Governo, assegna un ruolo propulsivo all’Università proprio perché si colloca alla “frontiera della scienza” producendo conoscenze dalle quali scaturiscono le autentiche innovazioni.

Se, infine, andiamo ad analizzare i dati sulla spesa in R&S, diffusi dall’NSF, possiamo notare che nel 2009 le Università degli Stati Uniti hanno speso 55 miliardi di dollari, di cui il 75% in ricerca di base e solo il 25% in ricerca applicata e sviluppo. E ciò trova riscontro nelle fonti di finanziamento: il 66% della spesa totale è finanziato dal governo (spiegabile con l’elevata componente di ricerca fondamentale), mentre l’industria finanzia solo il 6% della spesa complessiva in ricerca delle Università.

Questo dato potrebbe apparire strano poiché, notoriamente, negli USA l’industria sostiene la maggior parte degli investimenti complessivi in R&S. Ed, in effetti, nel 2009 l’industria ha investito 247 miliardi di dollari in R&D su un totale del settore privato pari a 261 miliardi di dollari, a sua volta pari al 65% (in diminuzione rispetto al 68% del 2008) della spesa totale degli Stati Uniti che ammonta a oltre 400 miliardi di dollari. Ciò significa che, da una parte, le imprese americane spendono cifre rilevanti in ricerca applicata, ma, dall’altra, esse svolgono l’attività di ricerca industriale nei propri laboratori di ricerca interni (o di consorzi costituiti a tal fine). Le Università e gli enti di ricerca pubblici continuano a realizzare la gran parte della ricerca di base, finanziata principalmente con fondi pubblici.

La cosiddetta “terza missione” dell’Università non implica l’abbattimento degli investimenti in ricerca di base. Anzi, è bene ricordare che, date le caratteristiche di non rivalità e non escludibilità della conoscenza di base e le conseguenti forti esternalità positive, solo l’intervento pubblico può ovviare ai fallimenti del mercato. Ovviamente, il ruolo dell’Università e degli Enti Pubblici di Ricerca non si esaurisce nello svolgimento della ricerca di base, ma, allo stesso tempo, il problema della competitività delle imprese e del Sistema Paese non si risolve solo con la terza missione dell’Università. È necessario intervenire su più fronti, con una molteplicità di strumenti (non solo sussidi!) e di interventi normativi, che vanno, giusto per citarne alcuni, dalla creazione di un robusto sistema nazionale per la valorizzazione della ricerca basato su una rete altamente qualificata e professionale di intermediari della ricerca, sino alla definizione di meccanismi di assegnazione dei fondi pubblici per la ricerca in grado di contrastare efficacemente i problemi di “moral hazard[2], da interventi in grado di stimolare gli investimenti in capitale di rischio senza passare per soluzioni alla JEREMIE[3] ma puntando sulla mobilitazione dei capitali privati, sino alla scelta strategica di puntare su grandi progetti di ricerca (>50 Milioni di Euro) in grado di innescare processi di sviluppo e stimolare una reale domanda di innovazione.

 

Luciano Mallamaci

Giugno 2011

BIBLIOGRAFIA

  • Francesco Coniglione, “Mission impossible”. L’università e la sua “terza missione”, Roars Online, 23 Maggio, 2012
  • NSF, Academic Research and Development Expenditures, Fiscal Year 2009, Marzo 2012
  • NSF, U.S. R&D Spending Suffered a Rare Decline in 2009 but Outpaced the Overall Economy, Marzo 2012
  • Pietro Greco, I primi sessant’anni della National Science Foundation, Scienza in Rete, 17 Dicembre, 2010
  • Henry Etzkowitz, The Triple Helix. University-Industry-Government Innovation in Action, Routledge 2008
  • Riccardo Simone (a cura di), Il trasferimento tecnologico: teorie, modelli, esperienze – Redazione IRISIPIEMONTE, CSP – Innovazione nelle ICT, 2007
  • Fabrizio Cesaroni e Alfonso Gambardella, Trasferimento tecnologico e gestione della proprietà intellettuale nel sistema della ricerca in Italia, Working Paper, LEM, Sant’Anna School of Advanced Studies, 2001
  • Vannevar Bush, “Science: The Endless Frontier”, President’s Office of Scientific Research and Development, Luglio 1945

 


[1] Pochi giorni la pubblicazione del rapporto di Bush, i tragici eventi di Nagasaki e Hiroshima diventano un triste esempio di quanto possano essere concreti i risultati del lavoro degli accademici.
[2] Il moral hazard è una forma di opportunismo post-contrattuale che può portare gli individui a perseguire i propri interessi a spese della controparte, confidando nella difficoltà per quest’ultima di verificare la presenza di dolo. Nella fattispecie, ci si riferisce al rischio che vi siano imprese che potrebbero impegnarsi in progetti fittizi di R&S al solo scopo di ottenere i sussidi pubblici.
[3] L’iniziativa JEREMIE, Joint European Resources for Micro to Medium Enterprises, sviluppata dalla Commissione europea in collaborazione con il Fondo europeo per gli investimenti, consente agli Stati Membri dell’UE di utilizzare i Fondi Strutturali per investire in capitale di rischio, prestiti o fondi di garanzia.

Comments are closed.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: